Da quando esiste la comunicazione verbale sotto forma di parola esiste anche quella che viene definita come “parolaccia”.
La parolaccia è secondo il vocabolario Treccani: Parola sconcia, volgare (anche per insulto), oppure blasfema.
Dunque rientrano in questa categoria tutti quei vocaboli che vengono utilizzati per esprimere un certo stato d’animo o un certo pensiero verso un soggetto che in questo contesto si vuole offendere più o meno pesantemente.
Tutti noi abbiamo fatto uso delle parolacce almeno una volta nella vita, anzi, da alcune ricerche emerge che la fiducia viene riposta più facilmente in persone che in contesti informali e di amicizia utilizzano le parolacce in quanto si ritiene che siano più onesti e trasparenti. Ovviamente questo varia in base alla situazione e al momento, ma quindi sentitevi liberi di poter usare il turpiloquio senza sembrare grezzi o volgari, sempre che sia tenuto sotto controllo.
A dire il vero studiare le parolacce e come queste siano cambiate nel tempo ci dà moltissime informazioni su come sono o sono stati gli usi e costumi di una determinata popolazione; allo stesso modo possiamo intendere cosa fosse assolutamente normale o cosa invece fosse considerato disdicevole.
Pensiamo ad esempio alla parola “discinto” che nel notro significato corrente indica qualcuno che non è perfettamente in ordine, che porta gli abiti aperti in maniera caotica, allo stesso modo poi tale termine si può stendere anche al senso morale del termine. Beh, pensate che nell’antica Roma il termine discinto, soprattutto se riferito ad una donna, era da considerare un insulto vero e proprio dato che chi se ne andava in giro senza cintura (cingulum) erano le prostitute! O se invece ci si riferiva ad un uomo questo era visto come trasandato e considerato al pari di un mendicante.
La parte divertente sta nel sapere che se una domina se ne fosse andata in giro per la città con un vestito leggerissimo e quasi trasparente, nessuno avrebbe fatto una piega fintanto che avesse portato una cintura in vita. Al contrario se una donna coperta da capo a piedi avesse attraversato l’urbe senza i fianchi cinti avrebbe ricevuto non poche occhiatacce!
Allo stesso modo un termine assolutamente dispregiativo che oggi viene utilizzato per indicare una persona omosessuale quale “finocchio” deriva dalla Toscana, a causa della pratica di alcuni mercanti di vino truffaldini che offrivano cibo contenente semi di finocchio ai potenziali clienti prima di far provare loro la merce, in questo modo il vino sarebbe sembrato molto più buono di quello che in realtà era a causa del sapore dell’ortaggio che falsa il gusto.
Quindi in pratica ci si riferisce in maniera molto elaborata ad una persona che prova piacere nel fregare il prossimo!
Avere quindi la consapevolezza di quello che si sta dicendo aiuta enormemente nella comunicazione, soprattutto per evitare di sbagliare completamente il significato etimologico quando ci si riferisce al proprio oggetto di sfogo.
Nella comunicazione di tutti i giorni l’uso del turpiloquio è quotidiano, ma va calibrato e adattato alla situazione in cui ci si trova, parlando con una persona con cui abbiamo molta confidenza non ci sarà assolutamente nessun problema nell’usare le parolacce, soprattutto se siamo in una situazione in cui uno dei due parlanti sta provando del dolore fisico o mentale, dato che è stato dimostrato che dire le parolacce aiuta a sentire meno dolore in quanti si dà sfogo al proprio disagio esprimendolo a parole.
Tutto cambia invece se ci si trova in un ambiente pubblico dove si deve rispettare la decenza comune, quindi potrebbe capitare che scappi una parolina o due di troppo, ma sempre appartenenti a quelle parolacce che ormai sono entrate a far parte del linguaggio comune e a cui non si presta poi tanta attenzione.
Assolutamente da evitare sono le parolacce in un contesto in cui il turpiloquio è assolutamente vietato e potrebbe solo che gettare una cattiva luce sul parlante dato che è inadeguato e fuori luogo, come ad esempio in una situazione formale o durante un colloquio di lavoro.
Si possono scrivere le parolacce?
Come per la comunicazione orale anche la comunicazione scritta presenta diverse situazioni in cui le parolacce sono accolte o si devono lasciare fuori dalla porta.
Pensiamo alla messaggistica quotidiana, anche qui si rispetteranno le regole applicate in una comunicazione di ambito affettivo ristretto, in generale la messaggistica non impone un livello di rigore molto alto, ma se si tratta del vostro datore di lavoro sarebbe sempre meglio evitare, usando espressioni neutre oppure accettabili come: cavolo, accidenti e casino.
Se invece si tratta della comunicazione sui social media la questione diventa ancora più complicata, con l’avvento di queste nuove forme di comunicazioni si è data maggiore libertà di espressione a tutti gli utenti, che però dovrebbero tenere un livello di turpiloquio tale da non cadere nel tabù, come è l’uso della bestemmia. Ovviamente sappiamo benissimo che non tutti gli utenti comprendono questa regola basilare, ma se ognuno dà il proprio buon esempio potrebbe anche darsi che questi personaggi un giorno decidano di redimersi da un punto di vista lessicale.
Per quanto riguarda invece libri e romanzi, non è raro trovare qualche parolaccia qui e là, sempre però usata in virtù dello stile del testo e del personaggio da cui escono di bocca. Come nella vita reale i nostri personaggi imprecano in varia maniera, e includere qualche piccolo vocabolo della famiglia delle pecore nere della comunicazione potrebbe dare un tocco di colore alla conversazione o alla scena.
Come per ogni cosa, però, le parolacce vanno dosate dato che il troppo stroppia, e se si seminano troppi grani sparlaccioni si verrà ripagati con la foresta di impenetrabile indifferenza del lettore che, assuefatto, non avrà più motivo di stupirsi per questa scelta.
Come abbiamo visto in questi ultimi anni anche nell’ambiente politico si ricorre al turpiloquio per dibattiti e propaganda elettorale, cambiando le regole del buon costume e talvolta sfociando nel ridicolo. Questo è un chiaro esempio che a volte l’uso forzato del turpiloquio per avvicinarsi alle masse è da considerarsi sconveniente in un contesto dove dovrebbero prevalere le idee, e non gli effetti comunicativi.
A dire il vero lo studio dell’uso delle brutte parole è stato affrontato anche da Trotsky e Stalin, per studi sulla divisione di classe, molto diverso quindi dallo stile moderno, anche se qualcuno potrebbe trovarvi dei parallelismi.
Arrivando alla conclusione ovviamente l’uso delle parolacce è tassativamente vietato quando si parla di comunicazioni ufficiali o amministrative, ma mi sembra che sia abbastanza ovvio.
Quindi in sintesi se volete includere un po’ di brutte parole nei vostri racconti fate pure e date sfogo alla vostra creatività anche quando si parla di offese creative! E se volete un consiglio, andate a cercare le parolacce ormai desuete come queste offerte da Eco e riportate su questo articolo di parolacce.org.
Spero che tutto questo parlare di turpiloquio vi abbia fatto venir voglia di cercare nuovi ed interessantissimi significati per le parolacce a noi più care! Non vedo l’ora di leggerle nei commenti!
Forse non sono interessatissima alle origini delle parolacce, ma è certo che ne uso in grande quantità nella vita quotidiana. Mi piacciono, insaporiscono il discorso. I miei personaggi ne dicono a volte, ma senza esagerare. So che non tutti i lettori le apprezzano/accettano, e d’altra parte non sono disposta a far parlare i personaggi in un modo che mi sembrerebbe ingessato e fuori dal tempo. Quanno ce vo’, ce vo’, come si dice. 🙂
Esatto: “quando ci vogliono, ci vogliono”. Personalmente anch’io non aprezzo le parolacce, ma fanno parte della nostra vita ed anche negli scritti non bisogna negare il loro utilizzo, anche solo per una questione di verosomiglianza.
Poi viene da sè che bisogna moderare il linguaggio e cercare di non offendere i lettori.
Devo essere furibonda o al volante nella fretta perché mi escano parolacce da far impallidire anche un portuale… XD
Negli scritti metto il classico “cazzo!” ma vedo che di più non riesco, o finora non ho avuto personaggi che richiedessero maggior turpiloquio. Un amico, abituato alle parolacce ma non troppo, mi ha riferito di Novecento di Baricco dove, a suo dire, erano esagerate e fuori contesto. Ma non ho letto il romanzo per rendermene conto. Però ho trovato strano che a quell’amico dessero fastidio, ecco. Ci deve essere andato giù pesante Baricco!
Bellissimo l’elenco di Umberto Eco, alcune proprio non le conoscevo, altre sono ancora di uso comune da queste parti. Pare che le migliori siano in quel di Venezia Burano… a tradurre cosa dicono!
Ciao Barbara, sì, il monologo di Novecento (è per il teatro) viene narrato con parecchie parolacce, ma serviva a caratterizzare il narratore, un uomo semplice e di basso ceto. Diciamo che essendo un monologo non è che ci fossero altre persone ad alleggerire il linguaggio, come anche non era posibile cambiare il modo di parlare del narratore da un momento all’altro, che sarebbe apparso con più personalità.
Io sono talmente assuefatta alle parolacce venete che ormai non me ne accorgo quando gli altri le pronunciano: sebbene io cerchi di tenere un linguaggio appropriato, mi sono resa conto che quando esco dalla regione tendo anch’io a pensarle come intercalare! 😆