Recentemente è uscita la notizia che la Disney ha tolto dalla sezione bambini della sua piattaforma alcuni dei suoi grandi classici come Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti, vietandoli ai minori di sette anni.
Questo a causa dei messaggi ritenuti razzisti e dannosi da parte della dirigenza: nella sezione per adulti in cui sono stati trasferiti vi è un avviso che ne riconosce l’impatto dannoso, probabilmente per esortare i genitori a dialogare delle tematiche contestate con i propri figli. La sezione adulti, però, non dovrebbe essere accessibile ai bambini, nemmeno “accompagnati”.
Politically correct
Se cerco sinonimi per questo termine trovo tra gli altri “sensibilità muticulturale”, “accettazione sociale”: il concetto che si esprime alla fin fine si riduce in “evitare l’utilizzo di linguaggi o comportamenti che potrebbero offendere un particolare gruppo di persone”.
Il termine inglese da cui deriva il “politicamente corretto” italiano proviene da una traduzione semplicistica di “politically correctness”, che in realtà sarebbe “correttezza politica”.
Esso infatti nasce nell’ambiente universitario americano, in cui studenti discriminati chiedevano la possibilità di dialogare con gruppi a cui non appartenevano, in modo più libero e senza pregiudizi, evitando di essere oggetto di espressioni discriminatorie. Il loro intento era quello di poter avere un dialogo politico, utilizzando termini appropriati e lessicalmente corretti che potessero scongiurare l’interpretazione negativa per superiorità e giudizio dell’interlocutore.
Oggi, quella che è nata come una ricerca di utilizzo di termini appropriati in un dialogo tra culture, da molti è percepita come una censura, un impedimento ad utilizzare alcune espressioni che spesso non hanno alcun intento discriminatorio.
Stereotipi culturali e parole offensive
Peter Pan è stato tolto dalla sezione bambini perché usa il termine “pellirosse” per indicare i nativi americani; Gli Aristogatti perché il felino siamese ha denti spioventi, occhi a mandorla e usa le bacchette.
Possono urtare una sensibilità culturale? Certamente.
Ritengo però che sia doveroso contestualizzare l’utilizzo di un termine: ci sono parole come la n-word, che quando i miei genitori avevano la mia età era di uso comune e per niente offensiva. Poi, con l’importazione della cultura americana è stata trasformata in un insulto.
Sarebbero quindi da ridoppiare tutti i film di metà novecento che la adottano?
Togliere dalla prima serata John Wayne per i “pelerossa”?
Censurare “I Vatussi” per lo stereotipo di persona che racconta?
Esasperiamo il concetto: era il 2014 quando vi fu il caso dell’insegnate di musica di una scuola media che in accordo con i docenti delle altre materie aveva integrato allo studio della storia l’associazione di canzoni tipiche del decennio di studio. Un approccio interessante, un approfondimento sulle persone di quel tempo: ma quando si arrivò al decennio Fascista? Parlò agli studenti di “Faccetta nera”, “Ti saluto vado in Abissina”, “La tradotta”, “La leggenda del Piave” oltre ai canti partigiani come “Bella Ciao”.
Tra i genitori c’è chi insorse parlando di apologia del fascismo ed insinuando che un tredicenne non avrebbe avuto uno spirito critico per comprenderle.
Personalmente ho trovato questo caso un insulto alla professionalità di un educatore e all’intelligenza del ragazzo: potrei dire addirittura politicamente scorretto verso queste due categorie.
Uno spirito critico non è qualcosa di innato, ma si forma con l’educazione: viene dalla scuola e dalla famiglia.
Qual è quindi il confine tra la sensibilità culturale e comprensione?
Un racconto inclusivo ed equo
In realtà il discorso sopra doveva essere la semplice premessa dell’articolo di oggi, ma ricerche ed approfondimenti mi sono un po’ sfuggiti di penna. Quindi per oggi farò un piccolo schema sulla tematica di racconti inclusivi che approfondirò in un secondo momento.
La narrazione è sempre stata alla base della comunicazione, sia come divertimento che come istruzione. Ma non deve essere rivolta solo a chi deve imparare: anche in campo lavorativo le storie di successo o di fallimento sono riportate per infondere coraggio e motivazione.
Cosa vuol dire realmente inclusione?
Semplicemente che il lettore provi un senso di affinità ed accettazione per la persona che è, rispetto all’ideologia stereotipata di ciò che dovrebbe essere. Qualche tempo fa scrissi un articolo in merito ai romanzi per adolescenti dove nessun adolescente si sarebbe identificato, poiché i personaggi risultavano troppo idealizzati.
Il riconoscimento
Quante volte ci è capitato mentre leggiamo un libro di esclamare “ah, ah, ah… succede anche a me!”. Questo crea empatia tra scrittore e lettore ed è un fattore di successo per il libro.
Lo stereotipo
Non è opportuno stereotipare, con termini ed etichette collettive. Nulla vieta che in un racconto un personaggio con disabilità, ad esempio, possa avere un ruolo di antagonista.
La figura del “cattivo” deve risultare però legata alla persona, non alla specifica disabilità o alla categoria a cui appartiene.
Nella narrazione è normale seguire degli schemi e delle strutture, alle volte anche inserire degli stereotipi: la cosa importante è rispettare le diverse esperienze e prospettive umane.
Credo che in questo ambito si sia ampiamente sconfinato dal buonsenso; non dico quello contadino, che aveva sicuramente i suoi limiti, ma quello legato alla reale sensibilità delle persone. Tutto questo arrampicarsi sugli specchi mi sembra soltanto un tentativo artificioso di simulare un’accettazione che forse non c’è. Possibile che dobbiamo tornare indietro nel tempo a correggere ciò che in quello specifico periodo era considerato normale? Guardiamo avanti, non indietro! Io partirei anche dal presupposto che ogni persona debba accettare se stessa abbastanza da fare fronte a certe inezie senza sentirsi offesa o sminuita, sviluppando una normale resilienza. Ora bisogna stare attenti anche a creare personaggi sovrappeso! Se pensiamo davvero di creare una società migliore in questo modo, dico che forse vogliamo creare la società più debole e farisaica che esista, semmai. (Si capisce che questo tema mi… scalda molto?)
Felice di averti infervorato con questo articolo. Spero che il passaggio da un estremo all’altro (tesi-antitesi) poi porti ad un equilibrio nell’ambito inclusivo.
“Partirei anche dal presupposto che ogni persona debba accettare se stessa […] senza sentirsi offesa o sminuita”: un altro passo che è importante percorrere.
Alle volte l’essere permalosi porta a vedere discriminazioni ovunque: se correggo un daltonico dicendogli che “la mela è rossa” mentre lui la indicava come “verde”, gli faccio una cortesia oppure lo offendo, rivelando che ha sbagliato?
Si è arrivati ad aggrapparsi anche troppo alle parole, tanto che alcuni sostengono che basti cambiare o negare un termine per risolvere un problema.
Proprio così. Il punto è, secondo me, che il problema è altrove. Si va a correggere la forma, pensando che così cambi anche la sostanza, ma questo è soltanto in minima parte vero. Credo che bisognerebbe rivedere le nostre idee sull’essere umano e sull’educazione, a scuola e fuori. Il nostro mondo trasmette molti strumenti per restare fermi, pochi per progredire… ma qui si entra in un discorso infinito. Grazie per le riflessioni interessanti.
Il problema del politicamente corretto è che “sono solo parole”. Non chiamarli più “pellerossa” li aiuta davvero a vivere meglio la loro cultura e la loro tradizione? Dannarsi per usare la @ o la ç al posto delle tradizionali “o” maschile e “a” femminile aiuta davvero la comunità Lgbt a non essere discriminata nei fatti? Perché chiamarli “non udenti” e ” non vedenti” quando le rispettive associazioni sono Ente Nazionale Sordi e Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti? A che diamine serve un Ministero della Disabilità a parte, invece di aggiungere delle sacrosante pratiche di inclusione dei disabili in ogni ministero esistente? Il politicamente corretto ahimè serve solo a nascondere la scorrettezza quotidiana. Se il lavoro di uomo e donna fosse veramente equiparato, non parleremmo nemmeno di quote rosa.
Eh sì, l’argomento fa incavolare anche me…
Ho sollevato un argomento spinoso e ne sono felice.
“Il politicamente corretto ahimè serve solo a nascondere la scorrettezza quotidiana”: fose più che “nascondere” userei “giustificare”. Perchè io non mi reputo immune all’utilizzo di comportamenti e atteggiamenti (comprensive di frasi costruitte in modo ambiguo) che possono essere considerate scorrette. Ma nonostante i miei difetti, non sono certo una persona che distribuisce offese gratuite. La maggior parte delle volte è che non ci penso: una parola, un atteggiamento, un tipo di approccio, per me possono essere naturali. Allo stesso modo posso subire io un atteggiamento offensivo, senza che l’interlocutore se ne accorga.
[e mi dispiace per i nativi americani, ma per me sarà sempre “cow-boy contro indiani”.